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MIND. Dai Jetsons a Matrix: il ruolo dello spazio nella città digitale

Come saremo fra cent’anni?”.  E’ una di quelle domande che almeno una volta nella vita ci poniamo tutti. E’ la domanda che mi sono posto inevitabilmente anche io, qualche giorno fa, all’interno del “Cluster dei Cereali” – uno dei padiglioni che ha ospitato Expo 2015. Mi trovavo lì in occasione del MIND ADVISORY SUMMIT con altri rappresentanti delle 55 società (insieme ad eFM, TIM, ENEL X, ABB, Bosch, Cisco, Cariplo Factory, Aecom, PwC, Ambrosetti, Johnson Controls, fra gli altri) fondatrici del Federated Innovation Model. Si tratta del primo nucleo dell’ecosistema che supporterà Lendlease nel MIND - Milano Innovation District, la Smart City che sorgerà nel luogo che ospitò l’Expo. Un partenariato pubblico-privato (Arexpo-Lendlease) fondato su una concessione di 99 anni, fatto già notevole di per sé, almeno in Italia. Ed ecco allora che la domanda iniziale – Come saremo fra cent’anni? - non è più un gioco futurologico ma è diventata impegno e sfida concreta per tutti coloro che si trovavano lì, ognuno nel suo campo.

 

Il campo di eFM è l’immobile, lo spazio abitato, la città.

 

La questione interessante (o preoccupante, a seconda di come la guardate) è che l’elemento più sfidato nella “città del futuro” sembra essere proprio il costruito, lo spazio fisico (o la fisicità dello spazio).
Siamo passati, tutto sommato in poco tempo, dall’immaginario di città iper-funzionali, rappresentate da un vissuto quotidiano esponenzialmente proiettato in un futuro ottimistico (la mia preferita è da sempre la città dei mitici Jetsons, pronipoti meno noti dei Flintstons), alle più o meno recenti visioni dis-topiche – mai termine fu più adeguato - dove lo spazio è ridotto a passivo involucro di una vita disincarnata, vissuta altrove (da Matrix in giù). Certo, questi sono rifermenti fantascientifici; ma stiamo sicuramente vivendo un tempo di passaggio che sfida concretamente l’idea stessa di spazio e di esperienza “reale”.
La domanda allora per noi diventa: fra cent’anni la città (lo spazio) esisterà ancora?

 

 

Da qualsiasi lato la si veda la questione è particolare. Lo spazio, fino ad oggi, è stato una categoria del necessario, dell’inevitabile. Per lavorare serve un ufficio; per studiare una scuola; per curarsi un ospedale; etc. Spazio e funzione sono stati inscindibili. Questo ha vincolato per lungo tempo la nostra libertà, le nostre capacità, la nostra creatività, ha trattenuto molte energie nell’ambito di qualche tipo di muro perimetrale. Il digitale sta cominciando a liberarci da questo pesante vincolo materiale; la funzione sta abbandonando lo spazio. Lo spazio sta perdendo il suo ruolo di gabbia, di “custodia dell’esperienza”, la sua necessità.


Significa che (da qui a cent’anni) lo spazio da necessario diventerà accessorio? 
Alcuni sembrano pensarlo. Fra gli investimenti maggiori di Zuckerberg – uno che fa un po’ di danni ma che sul futuro ne sbaglia poche – è proprio nella VR (Virtual Reality). Un tool di simulazione del reale che prescinde largamente dall’idea di spazio e di abitare. Il fatto che – ad oggi – sembra anche uno dei suoi investimenti meno riusciti ci fornisce, se non una speranza, almeno un’indicazione?

Siamo in effetti di fronte ad una grande opportunità: uno spazio “liberato” che da inevitabile diventa auspicabile, da vincolo a possibilità, da gabbia dell’esistenza a teatro dell’esperienza. Uno spazio come servizio attivabile quando desideriamo che l’esperienza assuma le caratteristiche tipiche dell’abitare, dell’incarnato (parliamo di cose come endorfine, neuroni specchio, densità semantica, etc.). Da questo punto di vista, il digitale non è alternativa all’analogico (realtà virtuale), ma chiave per la sua liberazione (realtà aumentata).


Temo che, come spesso mi accade, sia scattato in me un ormai antico e appannato riflesso pavloviano che riporta ai miei giovanili studi filosofici. Un parallelo concreto è l’antidoto migliore per tornare a toccare terra. Pensiamo a quello che è avvenuto nella mobilità con il car sharing. 
Una serie di servizi digitali – chiave digitale, booking, geolocalizzazione – hanno “liberato” la mobilità dalla relazione diretta e permanente con la proprietà, trasformandola in un servizio on demand, non basato sul possesso ma fondato sull’accesso, da attivare puntualmente in base alle esigenze, al palinsesto giornaliero. Certo, il concetto di mobilità è per sua natura molto più dinamico di quello di spazio - moto a luogo VS stato in luogo; la proprietà di un immobile è esistenzialmente ben più coinvolgente di un’automobile; l’idea di abitare è molto più ricca di quella del muoversi. Concettualmente, tuttavia, il car sharing non è poi così lontano dallo space sharing. La sfida è quella di individuare quei servizi digitali necessari per abilitare una piattaforma dello “space as a service”. Proviamo. Oltre ad una chiave digitale per aprire gli spazi, per la loro prenotazione e geolocalizzazione, occorre prevedere la possibilità di filtrare dinamicamente utilities e facilities, di mappare gli abitanti (community/competenze/conoscenze) e soprattutto, di disegnare smart contract capaci di regolare in tempo reale servizi mutevoli, necessari ad uno spazio liquido, o almeno fluido, così concepito. Si può passare così da Car2go ad uno Space2live. 
 

Esattamente la strada che abbiamo iniziato ad intraprendere con MYSPOT - piattaforma dello “space as a service” - e proposto per MIND. Una bussola per la Smart City che orienterà gli abitanti di MIND nella scelta dei luoghi e dei servizi più appropriati allo svolgimento delle proprie attività (spazio), in base della propria agenda (tempo) e in funzione delle competenze attingibili nella relazione con l’ecosistema urbano di cui fa parte (conoscenza).

Quindi, come sarà la città fra cent’anni?
Per dare un’immagine conclusiva - che è anche un programma di lavoro - rubo le parole ad un filosofo (vero!) che la città non solo l’ha pensata, ma l’ha anche amministrata, nelle sue eredità millenarie, nei suoi problemi quotidiani, nei suoi scenari futuri.
 

“Dobbiamo progettare i nostri edifici come insediamento dell’anti-spazio della rete informatica, come nodi della rete, polivalenti, interscambiabili. […] L’abitare nostro, di questo tempo (…) non è, né mai diventerà, l’utopia del totale sradicamento del tempo da ogni metrica spaziale e della disincarnazione della nostra anima. Questo sono cattive gnosi, figlie di un’ingenua fede o, meglio, superstizione nel ‘progresso tecnologico’.  Per il territorio post-metropolitano abbiamo bisogno di quella architecturae scientia (…): superare la monofunzionalità, pensare ad edifici davvero polivalenti”. (Massimo Cacciari – La città).
 

E’ vero: abbiamo un po’ di tempo, ma per disegnare la città in cui vivremo fra cent’anni, bisogna iniziare a pensare come se già l’abitassimo oggi.

 

Emiliano Boschetto – Community Building & Communication eFM

 

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