Una delle grandi esigenze in epoca di pandemia è quella di rendere flessibile l’uso dei patrimoni immobiliari. Lo smart working ha fisiologicamente ridotto il tasso di occupazione dei building e dei vari spazi di lavoro, e la prospettiva che prendano piede paradigmi sempre più agili e smart conduce a cambiamenti epocali non solo nel modo in cui vengono utilizzati gli ambienti, ma anche nei rapporti tra tutti i soggetti che fanno parte dell’universo real estate. Non è un caso che, proprio in questo periodo, i grandi player sentano forte l’esigenza di passare da una dimensione fissa dei propri asset a una più “variabile” e legata alle esigenze del mercato, sposando di fatto il concetto di digital servitization del patrimonio immobiliare.
Affinché la digital servitization del patrimonio immobiliare possa concretizzarsi sono necessari almeno due fattori: una domanda che punti in modo deciso questo tipo di soluzioni e un’offerta in grado di costruire contratti ad hoc ma anche luoghi e spazi facilmente configurabili/riconfigurabili in funzione delle esigenze di diversi clienti. Gli spazi devono essere dotati di una corretta abilitazione tecnologica e devono permettere di vivere esperienze efficaci, ricche, confortevoli ed engaging al loro interno. Torna dunque il tema dell’abilitazione tecnologica: piattaforme IoT, sensoristica avanzata, sistemi di controllo e integrazione con sistemi esterni sono elementi cardine di un paradigma che a tutti gli effetti può essere definito con l’espressione space as-a-service.
La Digital Servitization del patrimonio immobiliare richiede chiaramente un cambio di passo, o meglio di paradigma, per quanto concerne i rapporti contrattuali tra gli operatori immobiliari e i propri tenant, ma anche quelli relativi alla gestione dei servizi di Facility: il focus, sotto questo profilo, deve infatti passare dal concetto di “gestione” dell’asset e della sua efficienza operativa a quello della “creazione” di ambienti in cui le persone possano vivere esperienze abitative uniche, piene, totalizzanti e soddisfacenti.
Il cambiamento, sia a livello di mindset che di rapporti contrattuali nell’ambito del Facility Management è enorme, perché non parliamo di più del classico affitto a metro quadro comprensivo di determinati servizi, ma di una disponibilità “granulare” degli asset (anche una sola postazione lavorativa, una sala riunioni) con connesso un vero e proprio catalogo di servizi disponibili on-demand che possono essere configurati e attivati o meno dal cliente e che vengono pagati solo in funzione dell’effettiva necessità (as-a-service). In questo modo, si ottiene quella flessibilizzazione degli spazi, dei servizi e dei patrimoni immobiliari che è essenziale per far fronte e sfruttare al meglio le necessità del periodo pandemico che, è utile ricordarlo, non termineranno quando il covid sarà diventato solo un ricordo.
MYSPOT, la piattaforma con cui eFM concretizza la propria mission di realizzare e gestire luoghi engaging, abilita appieno questa visione, e lo fa sotto diversi punti di vista: per esempio, permette agli employee di personalizzare al massimo la propria esperienza lavorativa, dal booking delle postazioni alla scelta del luogo presso cui vivere l’esperienza stessa. Dal punto di vista del facility management, MYSPOT abilita forme contrattuali molto più avanzate di quelle tradizionali, più evolute e flessibili, basate sul concetto di disponibilità degli spazi (pay-for-availability) e assistite dalla solidità dello smart contract, che grazie all’integrazione con l’IoT e l’impiego della tecnologia Blockchain, rende automatizzata, trasparente e sicura l’esecuzione contrattuale, semplificando i rapporti tra le parti. Nell’ottica dello space-as-a-service, l’automazione data dallo smart contract rappresenta un passo avanti determinante per i chi gestisce patrimoni immobiliari, poiché i rapporti non possono che crescere esponenzialmente, sia a livello di quantità che di complessità.