Il successo e la crescita dell’azienda sono la conseguenza di svariati fattori, tra i quali un posto al sole è occupato dall’employee satisfaction. La soddisfazione e l’appagamento di chi ogni giorno lavora per concretizzare la mission dell’impresa incidono in modo importante su aspetti pratici e concreti come la produttività, la redditività, il tasso di turnover e la capacità di attrarre talenti all’interno di un mercato sempre più competitivo e avaro di risorse di valore.
Eppure, ottenere e mantenere alto l’employee satisfaction – un concetto che ha diversi aspetti di sovrapposizione con quello di engagement – è una sfida complessa per le aziende e in particolare per le relative funzioni HR. A tal proposito, Gallup sostiene che solo il 35% degli employee sia “soddisfatto”: nonostante l’ultima rilevazione (2019) evidenzi la quota più alta degli ultimi anni, non dobbiamo dimenticare che esiste un 52% di employee non-engaged e un 13% di actively disengaged, la cui insoddisfazione è talmente marcata da venire condivisa con i colleghi e, in questo modo, diffusa all’interno dell’azienda. Il fatto che si debba agire è poi confermato da altri studi che evidenziano un nesso causale tra la employee satisfaction e il market value delle aziende. Sotto questo profilo, quindi, i due grandi obiettivi sono la misurazione dell’employee satisfaction e la sua massimizzazione, fattore sul quale la retribuzione gioca peraltro un ruolo secondario rispetto alla cultura aziendale. In questo articolo ci occupiamo del primo punto.
Si è già detto che le espressioni employee satisfaction ed engagement presentano più di un punto in comune. In realtà, però, si tratta di due concetti un po’ diversi, collegati e parimenti benefici per le aziende, che infatti dovrebbero perseguirli entrambi. L’employee satisfaction è determinata dalla distanza tra le aspettative e la realtà dei fatti, il tutto ovviamente declinato a livello professionale. Se l’aspettativa, motivata dell’osservazione del mercato, è quella di un certo trattamento economico, di determinati benefit e – magari – di un certo ruolo o libertà d’azione, ma poi la realtà si presenta in modo molto meno attraente, fa immediatamente capolino l’insoddisfazione, da cui una produttività in calo e meno interesse nel proprio lavoro. Il concetto di engagement va oltre ed è ciò che motiva il dipendente a fare sempre meglio: se è vero che alcuni considerano la satisfaction come prerequisito dell’engagement, la certezza è che si tratti di un concetto ampio e, per certi versi, anche più difficile da perseguire, poiché sinonimo di un legame forte tra l’azienda, comprensiva di valori, cultura e obiettivi, e le persone che vi lavorano (che potrebbero diventare i suoi primi ambassador). L’engagement è sì soddisfazione, ma coinvolge fattori ulteriori come la motivazione, il coinvolgimento e l’entusiasmo.
Innanzitutto, occorre domandarsi in che modo l’employee satisfaction possa essere misurato, o meglio venga misurato da tempo in quanto uno degli indicatori dello stato di salute dell’azienda. Il concetto è sempre stato quello del feedback: organizzare colloqui one-to-one, sottoporre i dipendenti a sondaggi periodici (rigorosamente anonimi, a garanzia di sincerità), una certa sensibilità nel “leggere fra le righe”, osservare il mercato e parametri oggettivi come il tasso di assenteismo.
Si è detto che, oltre ai feedback diretti, esistono dati oggettivi in grado di fornire una stima del grado di soddisfazione derivante dall’esperienza lavorativa: gli employee satisfaction KPI. Il grado di assenteismo è senza dubbio il primo della lista, ma non l’unico: il tasso di turnover/retention, per esempio, è fondamentale a tal fine, specie quando è piuttosto complesso trovare e trattenere in azienda specifiche professionalità; vanno considerati anche parametri di produttività e profitto dell’impresa, poiché la relazione tra appagamento soggettivo e produttività è diretta e condiziona gli employee satisfaction KPI. Non solo: le divisioni HR possono considerare quanti giorni di ferie siano stati richiesti nel corso dell’anno e di quelli precedenti, poiché un lavoro impegnativo e stressante – che quindi incide sulla soddisfazione – rende complesso bilanciare lavoro e vita privata e tende a ridurre i giorni di vacanza goduti. Può essere anche interessante valutare il tempo medio che intercorre tra l’assunzione e le dimissioni, magari ripartendo i dati per divisione e ruolo: se troppo ristretto, questo KPI identifica un rivedibile processo di onboarding. Infine, esistono employee satisfaction KPI specializzati, tra i quali il più diffuso è l’Employee Net Promoter Score.
Oggi, volendo adottare le medesime modalità e gli stessi strumenti di sempre, la tecnologia permette di essere estremamente più efficienti ed efficaci: le survey possono essere inoltrate sui dispositivi mobile dei dipendenti, sono molto più frequenti e personalizzate, il colloquio one-to-one in azienda diventa una call singola o di team e i dati su cui lavorare sono molti di più. Ma il punto fondamentale è che, oggi, la misurazione e il miglioramento della employee satisfaction possono avvenire by design, ovvero essere parte integrante del paradigma di lavoro. Non si tratta, quindi, di misurare la soddisfazione ex-post all’interno di un modello che ha altre priorità, cercando poi di adottare correttivi legati agli spazi, ai processi, all’organizzazione e ai carichi di lavoro; “by design” vuol dire impostare un paradigma lavorativo nel quale il monitoraggio e la massimizzazione della employee satisfaction siano parte della routine quotidiana, del “modo di funzionare” dell’azienda.
Come ottenere un risultato del genere? L’elemento abilitante è sempre la tecnologia, senza la quale mancherebbero i dati attorno ai quali impostare questo nuovo paradigma. I feedback personali rimangono fondamentali e non possono essere messi in secondo piano, ma vanno integrati con tanti altri strumenti, tecnologie e piattaforme capaci di rendere il workplace moderno a misura di employee.
Pensiamo al mare magnum dell’IoT all’interno degli spazi di lavoro, cioè ai sensori che, istante per istante, rilevano dati ambientali e condizioni di utilizzo degli uffici; andando oltre, possiamo parlare di videocamere con riconoscimento del volto (privacy permettendo) e di sentiment analysis, con tanto di acquisizione dei dati emotivi e relazionali che connotano l’esperienza lavorativa e che sono fondamentali per capire la soddisfazione soggettiva delle persone. Immaginiamo, poi, di passare dal concetto di feedback a quello di feedforward: qui, non sono più i dipendenti a comunicare ai responsabili una criticità o un problema, ma è il sistema a rilevarlo dai dati che gli vengono forniti e a suggerire, magari tramite l’immancabile assistente virtuale, qualche attività risolutiva. Il consiglio giusto al momento giusto. Esempi? Prenotare per tempo una certa sala riunioni, un posto auto, prendersi un quarto d’ora di pausa, fare un po’ di attività fisica: consigli che si inseriscono e si modulano in base all’agenda quotidiana. Tante cose che, nella frenesia quotidiana, spesso sfuggono ma hanno un impatto enorme sulla piacevolezza del proprio lavoro e, di conseguenza, sul grado di affezione alla propria azienda e sugli obiettivi che verranno raggiunti.